"Se
i nostri ragazzi non sanno più soffrire"
di MARCO LODOLI
Entriamo nella classe di una scuola di
periferia: il professore vorrebbe interrogare un'allieva, due
domandine su un racconto di Maupassant letto nella lezione
precedente, niente di difficile. Ebbene, la ragazza si rifiuta
tassativamente di farsi interrogare, non ci pensa proprio di
alzarsi e rispondere. Il professore le chiede il perché di
quella decisione: non ha studiato, non ricorda, pensa di essere
più pronta l'indomani?
Perché adesso non vuole accettare due domande? La risposta è
semplice e chiara: "Non voglio soffrire neanche un minuto: ma
nessuno vuole più soffrire, non se ne è accorto professore?". In
fondo questo deve essere lo stesso pensiero che ha portato i
quattro studenti del Parini di Milano a di allagare la scuola
per evitare un compito di greco. Non volevano soffrire. Ecco la
verità centrale della nostra civiltà, ciò che prima l'ha resa
straordinaria e ora la rende così fragile. Contro la crudeltà
della Natura, contro la violenza degli uomini, contro i sensi di
colpa e contro ogni dolore, la nostra civiltà ha trovato mille
soluzioni.
I nostri padri e i nostri fratelli maggiori hanno inventato
l'anestesia, lo stato sociale, il tempo libero, il divorzio e
l'aborto, le medicine, il cinema e la televisione, i centri
anziani e le ferie, i bar e il campionato di calcio, il laicismo
e il diritto al piacere: e il mondo è diventato migliore, tanta
inutile pena è stata sconfitta. Siamo vissuti a lungo in un
tempo che ha quasi realizzato il sogno di una vita più felice,
di una rosa quasi senza spine. Certo, la sofferenza non può mai
essere debellata totalmente perché le prepotenze sociali
restano, perché la morte alla fine arriva, perché la vita
comunque è dura. E soprattutto non si può cancellare la fatica
che ognuno deve fare per dare una forma alla propria esistenza.
Ognuno sa di avere un destino da compiere, e questo costa un
impegno e dunque anche una sofferenza. Se non la spremiamo,
dalla nostra arancia non uscirà alcun succo. Insomma, abbiamo
costruito un modello di società dove non dobbiamo patire
insensatamente: dobbiamo solo cercare di essere felici
esprimendo il meglio di noi stessi, e forse possiamo anche
farcela. Ma ora questo modello traballa per lo stesso motivo per
cui si è imposto. Come ha dichiarato quell'alunna, noi non
vogliamo soffrire mai, neppure per un momento, neppure per
misurare le nostre forze.
Ancora una volta dai ragazzi, avanguardia del tempo, ci arriva
il messaggio più nitido, quello ci costringe a riflettere sul
centro della questione. La nostra capacità di sopportare le
difficoltà, di raccogliere le energie di fronte a una piccola
salita, di pretendere qualcosa di più da noi stessi grazie a uno
sforzo anche esiguo, ormai si sta esaurendo. Andiamo avanti a
pasticche che sollevano dalla depressione o smorzano l'ansia,
beviamo per non sentirci inadeguati, abbassiamo ogni giorno gli
obiettivi, ci ritiriamo da ogni confronto, anche dal confronto
con la nostra vita e con i nostri sogni. Tutto va bene così come
è, e se non va bene ci si può sempre voltare dall'altra parte,
distrarsi, stordirsi, evitarsi. Non c'è grappolo che non sia
comunque troppo in alto, non c'è uva che non sia acerba. Persino
la malinconia, sentimento capace di allargare l'anima per farle
accogliere tanta altra vita, viene respinta dal nostro modello
imperante. E così questa civiltà, che tante battaglie ha
combattuto e vinto contro ogni dolore, ora si sta afflosciando.
Ogni nobile illusione viene immediatamente scartata perché
prevede una fatica che non si desidera più compiere.
Anche una semplice interrogazione o un compitino in classe
diventano vette impervie da spianare con un rifiuto, in nome di
un edonismo assoluto. I nostri padri hanno preso a schiaffi la
sofferenza, noi invece oggi restiamo zitti e buoni, crediamo che
non si debba fare più nulla, diventiamo grassi e pigri,
scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna. Diventiamo
deboli, e la sofferenza se ne accorge e torna in forme nuove a
minacciare quanto di buono è stato costruito: ci scopre vuoti,
piccoli, disarmati, infelicemente soddisfatti, e si prepara a
rovinarci.
Repubblica - 22 novembre 2004
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