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Dall’imbecillità del voto all’intelligenza della valutazione

Rassegna stampa web: RETESCUOLE

Torino , 16/02/2009
Dall’imbecillità del voto all’intelligenza della valutazione di Cosimo De Nitto

Evento di riferimento: il “10” a tutti i bambini della scuola elementare “Longhena” di Bologna.
Reazioni: Roma, 12 feb. (Adnkronos) il Ministro dichiara:
‘E l’ennesimo caso di chi fa politica a scuola, un vizio che abbiamo ereditato dal ’68. In classe non si fa politica”.
E poi ancora:
“Mi auguro che i dirigenti di questa scuola prendano provvedimenti e sanzioni contro i responsabili.”
E poi ancora:
“Molti giudizi nella forma che circolano nelle scuole sono invece lacunosi. In ogni caso, su questo e sulla nuova valutazione del voto in condotta, c’e’ una legge e va rispettata”.

Gli insegnanti, dunque, non ascoltati, ma spesso insultati dal “loro” Ministro, che scatena contro di loro le truppe dei suoi colonnelli per averne le spoglie, decidono di riappropriarsi di una materia, quella della valutazione, sulla quale loro e solo loro sono competenti. Certo, si obietterà, nessuno nega questa competenza, il Ministro decide o ordina per legge solo le forme della rappresentazione e della comunicazione degli atti valutativi. Il problema posto in questi termini sarebbe dunque bello e risolto definitivamente. Troppo semplice, troppo elementare.
Ma non è così.
Per quanto la semplificazione sia eretta a maniacale obiettivo del decisore politico, le cose non stanno proprio così, perché tra significato (il contenuto del processo valutativo) e significante (i simboli verbali e non verbali che si scelgono per rappresentarlo) non passano rapporti di indipendenza assoluta tali per cui si possa scegliere qualsivoglia forma, che, per quanto convenzionale sia, alla fine deve comunque poter rendere conto al meglio del processo che va a interpretare e rappresentare.
Non la forma apparentemente più semplice, non uno spot elettorale o televisivo commerciale, ma quella più idonea, quella che più si avvicina a esprimere il processo di crescita dell’alunno persona, con le sue modalità e stili di comportamento e apprendimento, i fattori frenanti, le abilità e le potenzialità, luci e ombre che caratterizzano la sua personalità e problematiche ambientali, relazionali ecc.
Sarebbe stato opportuno da parte del Ministro ascoltare, cercare di capire, approfondire col mondo scientifico, farsi spiegare dagli esperti, consultare gli insegnanti, prendere in esame le buone pratiche valutative, riflettere un bel po’, prima di entrare a piedi uniti su un terreno tanto delicato, complesso, problematico, pieno di innumerevoli implicazioni.
E invece no. Bisogna caratterizzare politicamente il ministero, bisogna dare una lezione a quei sessantottini degli insegnanti che devono smetterla di fare politica (!?), bisogna uniformare, standardizzare, semplificare (fa torto all’intelligenza procedere per categorie-attributi come insegnati=sessantottini, impiegati=fannulloni ecc.), cambiare a tutti i costi, subito, per legge, per comando, basta col pedagogese (ancora nessuno ha dato l’annuncio al Ministro che la Pedagogia è la regina delle scienze della formazione).
Ma era tanto difficile chiedersi il perché, con quali argomentazioni pedagogiche (pedagogia non è una parolaccia inventata dai sessantottini per camuffare le loro trame eversive!), in base a quali esperienze nella scuola dell’obbligo si era scelto di non dare più voti? E’ mai possibile e accettabile che ogni nuovo Ministro voglia rifare (lo chiamano impropriamente riformare) la scuola a immagine e somiglianza dei propri convincimenti ideologici?
E’ come quel professore di Storia che ogni volta cominciava la lezione dall’età preistorica e alla fine dell’anno era ancora all’età preistorica. Quel professore di Storia è il Ministro di turno. La preistoria è la scuola primaria che ogni volta ne fa le spese pagando dazio ai ghiribizzi ideologici e politici del Ministro, che parla prima di ascoltare, decide prima di informarsi per conoscere bene la materia, comanda anziché governare, ordina e minaccia anziché convincere, demolisce la scuola che invece è chiamato a tutelare, proteggere sviluppare. Ogni volta che il nuovo Ministro subentra, rifà la legislazione scolastica nell’illusione che basta cambiare le leggi e automaticamente cambiano i comportamenti e i convincimenti dei docenti, che sono il frutto di decenni di lavoro e riflessioni professionali spesi quotidianamente tra i banchi. L’insegnamento non è un lavoro burocratico, gli alunni non sono pratiche da evadere, la pedagogia, la metodologia, la didattica non sono protocolli e routine che si possono cambiare da un momento all’altro a piacimento del decisore, capoufficio o ministro che sia a furia di circolari imperative e minacciose. Certo, il cambiamento può e, quando occorre, deve esserci, ma passando attraverso forme di coinvolgimento e convincimento, aggiornamento, aiuto, supporto. Un cambiamento superficiale, affrettato, non fondato culturalmente e scientificamente, non meditato, non capito, persino osteggiato da chi dovrebbe attuarlo è peggio del problema che si vorrebbe risolvere, una cura peggiore della malattia, soprattutto quando viene imposto con metodi da caserma. Si deve procedere con e attraverso, non sopra, la testa degli insegnanti. Altrimenti si verifica uno scollamento tra decisore politico e scuole che porta solo confusione, conflitti, reazioni, proteste esemplari, malessere di tutto il mondo della scuola diviso tra un “resistere” e un “non capisco ma mi adeguo”.
A chi giova tutto ciò? A nessuno.
Non al Ministro, la cui guerra contro il mulino a vento del ’68 gli procura solo discredito politico e culturale.
Non ai docenti, i quali non possono essere chiamati a combattere su più fronti, quello dell’impegno quotidiano in un lavoro divenuto sempre più difficile, e quello della resistenza civile contro chi minaccia il cuore stesso della professione con un attacco senza precedenti al posto di lavoro, alla certezza della sede e delle funzioni, ai tempi di insegnamento e apprendimento, all’autonomia e libertà di insegnamento nei contenuti, organizzazione, modalità di valutazione degli esiti ecc.
Meno che mai giova agli alunni e alle loro famiglie, che fanno le spese del caos, del disorientamento, del clima che si determina, non certamente favorevole alla calma e tranquillità che serve per chiamare tutti, nessuno escluso, alla necessaria sensibilità verso i problemi della scuola, su cui occorre investire le migliori risorse del Paese, perché è in ballo il futuro delle giovani generazioni e della società stessa, soprattutto in un momento come questo di crisi profonda, non solo economica, delle società occidentali.
Quando, come nel caso della valutazione e delle sue forme di rappresentazione e comunicazione sociale, sono in ballo problemi di alto spessore pedagogico e didattico, non si può seguire una linea di condotta da parte del Ministro che procede per annunci televisivi e interviste, seguono leggi approvate, ma che ancora non hanno completato l’iter previsto, seguono circolari-ultimo-momento diverse e fondate su leggi non ancora leggi, regolamenti non ancora regolamenti, con una tempistica che getta tutto il corpo scolastico nella confusione più totale e lo consegna al fai da te e alla “speriamo che me la cavo”.
La valutazione non può essere data in pasto ai salotti televisivi e alle agenzie di stampa per essere trasformata in slogan tanto superficiali quanto devianti, buoni solo per propaganda e spot politici. La logica della spettacolarizzazione non si addice a una materia come questa, che, invece, per essere capita e non annoiare sua maestà lo spettatore viene banalizzata in un cumulo di luoghi comuni ulteriormente banalizzati da presentatori show man, che pretendono, con la loro incompetenza, di farla capire (!?) a un non ben identificato pubblico. Si comprende così perché in questi salotti non vengono chiamati gli esperti. Essi alzano il livello culturale e scientifico ma contraddicono il format dello spettacolo e col loro linguaggio fanno abbassare lo share che si alimenta di banalità e di rissa, cosce lunghe e insulti, emozioni e scandali, casi limite assurdi e paradossali, curiosità morbose e quant’altro.
Di valutazione, prima degli annunci massmediatici, se ne parli nelle sedi più consone e accreditate scientificamente, dove ci sono studiosi, scienziati ed esperti al massimo livello. Se ne parli nelle scuole, che lo studio e la pratica quotidiana hanno caratterizzato come laboratori vivi ed attivi. Perché il Ministro si riempie la bocca di parole quali competenza, merito, eccellenza ecc. e poi non attiva percorsi di consultazione e discussione e con chi ha cultura, titoli scientifici ed accademici, esperienze di alto profilo professionale?
Sarebbe bene sapere, per esempio, quanti docimologi, psicologi, pedagogisti, specialisti e studiosi di scienze della formazione sono favorevoli al voto espresso in numeri decimali nella scuola dell’obbligo. Sarebbe bene saperlo per potersi confrontare ad alto livello con argomentazioni scientificamente fondate in convegni, seminari, su riviste specializzate ecc. Non si può accettare che si delegifichi su questa materia, si consideri reato l’osservanza critica, non si ammetta la possibilità di deroga motivata e condivisa dagli attori sul campo (insegnanti, alunni, genitori). Non si può accettare che su un terreno come quello della valutazione si proceda con disposizioni chiuse, cogenti, che dispongono, intimano, diffidano, sanzionano. Le comunità che divergono con serie e fondate motivazioni non possono essere considerate fuorilegge da colpire e sanzionare alla stregua di criminali pericolosi per la società. Gli insegnanti della scuola di Longhena non sono criminali e fuorilegge, e molta gente, a cominciare da Sergio Cofferati, farebbe bene a informarsi prima di esprimersi in termini così definitivi e definitori. Non si può intervenire così in una materia che rifiuta certezze assolute essendo soprattutto fondata su un terreno “negoziale” per cui insegnanti, alunni, famiglie pattuiscono modalità di osservazione, criteri di valutazione, forme convenzionali che sintetizzano ed esprimono i processi di crescita degli studenti. Non serve una legge che definisca assolutamente, una volta per tutte e per sempre una materia in costante fieri, che deve sempre essere messa in discussione, vagliata e provata criticamente. Non è la teorizzazione del relativismo valutativo, ma tra un selvaggio “fai da te” e una legge infondata, pedagogicamente e didatticamente immotivata, ancorché autoritaria, si deve ritenere ci sia lo spazio per iniziative, atti e pratiche che diffondano una cultura moderna della valutazione, capace di far riflettere i singoli e tutta insieme la comunità scolastica non solo sui risultati degli apprendimenti, ma ancor prima e ancor più sui processi didattici che segnano la qualità degli insegnamenti e degli apprendimenti stessi.
Questo ministero è assolutamente in linea con i modelli che la cultura dei media diffonde, per cui si attribuisce senso e valore all’apparire, non all’essere e alla fatica del costruire. Questi modelli sono geneticamente incompatibili con la funzione della scuola, la quale quotidianamente è chiamata a studiare e riflettere per criticare le apparenze e andare alla sostanza delle cose, delle idee, del pensiero, delle persone, dei loro ambienti e comportamenti di vita. Altrimenti si commettono errori di superficialità imperdonabili nel valutare gli alunni, come ritenere assente e disinteressato uno studente che è solo timido, prepotente uno che è solo esuberante, bullo uno che non riuscendo ad inserirsi nel contesto, lo si isola ulteriormente e lo si mette al bando, punendolo anziché avendone cura, convinti del valore taumaturgico del timore della punizione e della punizione stessa in ambito educativo.
Il problema drammatico che oggi hanno tutti i sistemi scolastici occidentali non è quello delle forme in cui si esprime la valutazione, ma la valutazione stessa, intesa come riflessione profonda su ciò che si fa, su come si impara, ma anche come si insegna, come si organizzano gli ambienti di apprendimento, come far sì che forme più avanzate di apprendimento e di riflessione sullo stesso possano attivare processi di pensiero e comportamenti maturi verso se stessi e verso la comunità, per una cittadinanza solidale e consapevole.
Davanti alla enorme portata di questi problemi il Ministro cosa risponde, cosa fa? Fa altro, manda gli ispettori e invoca una punizione esemplare per chi cerca disperatamente di riportare il problema dalle forme alla sostanza, da come esprimere il voto alla valutazione formativa. Risponde altro, dà del sessantottino a chi parla di pedagogia, valutazione, educazione; dice “in classe non si fa politica” a chi in classe cerca, nonostante e malgrado i papocchi del ministero, di fare una buona didattica con scienza e coscienza.
Non so se il Ministro sa che “Qui non si fa politica” era scritto davanti ai locali pubblici all’epoca del fascismo.

Cosimo De Nitto

http://www.retescuole.net/contenuto?id=20090216163851

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