La natura inumana
di UMBERTO GALIMBERTI
Abbiamo chiamato "madre" la natura nel tentativo di
propiziarcela e abbiamo dimenticato che la natura è
semplicemente indifferente alle vicende umane. Come dice il Tao
Te Ching al capitolo quinto: "Il cielo e la terra sono inumani:
trattano i diecimila esseri come cani di paglia". Ma che ce ne
facciamo della sapienza antica noi, uomini della tecnica, che
pensiamo, con i nostri dispositivi, di dominare il mondo? Questo
delirio di onnipotenza ci rende immemori e ci fa dimenticare che
le sorti dell'uomo non sono nelle sue mani e neppure sono
protette dallo sguardo benevolo di un Dio, ma custodite nel
segreto inaccessibile di una natura che Goethe, in un suo saggio
sulla natura del 1783 descrive come una folle danzatrice che
nella sua danza sfrenata perde gli uomini che gli sono
aggrappati senza fedeltà e senza memoria.
Scrive Goethe: "Natura! Da essa siamo circondati e avvinti, né
ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Ci rapisce nel
vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo
stanchi e le cadiamo dalle braccia. Viviamo nel suo seno e le
siamo estranei. Costantemente operiamo su di essa e tuttavia non
abbiamo alcun potere sulla natura. La vita è la sua invenzione
più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita.
Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua
eternità".
Per reperire un senso e salvarsi dall'indifferenza della natura,
l'uomo ha inventato la storia. Prima come scenario di esseri
superiori che ha chiamato Dio e dèi, capaci di propiziare la
buona stagione, i frutti del raccolto, le condizioni del vivere.
Ma anche Dio e gli dèi si sono rivelati impotenti, i sacrifici
degli uomini li lasciavano indifferenti.
Fu allora che l'uomo, congedatosi dagli dèi e da Dio, prese a
costruire argini e spesse mura e, imitando i processi della
natura, tentò di arginare la sua potenza con la tecnica: tecnica
medica per evitare, come dice Ippocrate, la morte evitabile, la
tecnica ingegneristica per costruire difese che impedissero
catastrofi, la tecnica previsionale che allontanasse il più
possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
Rassicurato dalla sua mente e dai prodotti della sua mente
interrogò Prometeo, che aveva donato la tecnica agli uomini,
ponendogli questa domanda: "È più forte la tecnica o la
necessità che governa le leggi di natura?". Prometeo, amico
degli uomini e inventore delle tecniche, dà la sua risposta
lapidaria: "La tecnica è di gran lunga più debole della
necessità che governa le leggi della natura". Così riferisce
Eschilo nel Prometeo incatenato, e Sofocle, di rincalzo,
nell'Antigone dice che l'aratro ferisce la terra, ma questa si
ricompone dopo il suo passaggio. Allo stesso modo la nave fende
la calma trasognata del mare, ma le acque si ricompongono perché
la natura è sovrana.
Noi abbiamo dimenticato la sovranità della natura che, al dire
di Eraclito, "nessun uomo e nessun Dio fece" e, inebriati dai
nostri dispositivi tecnici, abbiamo dimenticato la sua potenza.
Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo al
dominio della terra, abbiamo trasformato il suo uso in usura. E
per il breve periodo delle nostre vite e dei nostri miopi
calcoli economici forziamo la natura a essere risposta alle
nostre esigenze oltre la giusta misura.
La terra per noi è diventata materia prima e niente di più, il
suolo coltre da perforare per estrarre energia dal sottosuolo,
la foresta legname da utilizzare, la montagna cava di pietra, il
fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da esplorare per
futuri sfruttamenti, l'aria spazio ove scaricare i veleni
rarefatti delle nostre opere.
Non c'è nessun nesso tra l'incedere impetuoso dei nostri
dispositivi tecnici e lo sconvolgimento delle acque e delle
terre in quell'area del mondo che è stata l'India e l'Indonesia,
ma un monito sì. Non dimentichiamo la potenza della natura e non
abituiamoci a pensare che essa altro non è che materia prima, o
deposito di rifiuti. Il trattato di Kyoto attende ancora molti
paesi, tra cui l'Italia, al rispetto della natura.
Migliaia di morti, soprattutto tra i dannati della terra, i più
indifesi, semplicemente perché più poveri, perché hanno per casa
quattro assi inchiodate e per vivere un dollaro al giorno. Sono
sempre i più deboli che la natura elimina seguendo il suo
principio della selezione. Ma se oggi la debolezza non è decisa
dalla biologia, ma dalla ricchezza e dalla disponibilità
economica, che complicità abbiamo con la ferocia della natura?
Queste sono le due domande che il maremoto nel Sudest asiatico
ci pone: 1. Che rispetto abbiamo della natura noi, uomini della
tecnica che la visualizziamo solo come materia prima?; 2. Che
rispetto abbiamo degli altri uomini, e che soccorso diamo a loro
noi, ricchi della terra, che ammiriamo la loro natura nel
passatempo delle nostre vacanze? Se sapremo rispondere a queste
due domande con serietà, non fermeremo né i terremoti né i
maremoti, ma eviteremo almeno che, per gran parte dell'umanità,
ogni sussulto della terra sia strage.
(27 dicembre 2004)
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